Fusione al freddo
Fusioni tra giganti, bombe che non sono ancora scoppiate, casi di cronaca che diventano telenovele e le solite fiammate di polemiche che durano poche ore
Questa è la sesta puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se invece vuoi ascoltare questo articolo in formato Podcast, lo trovi subito qui sotto, (ed anche su Spreaker, Spotify e sulle altre piattaforme). Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.
Dodici mesi fa, la settimana a cavallo tra ottobre e novembre — che ormai è quella di Halloween anche se la polemica sulla “festa americana”, malgrado tentativi di ogni tipo, non attecchisce più molto — sui giornali italiani si apriva con titoloni importanti. Si parlava di legge di bilancio, foriera come sempre di quel genere peculiare e immortale in Italia che possiamo riassumere in “tensioni nella maggioranza”, ma anche di fusione tra due giganti dell’automotive, FCA e PSA, e rapporti Italia Libia.
Nel frattempo, però, il dibattito e il fervore dell’opinione pubblica e dei social era preso dalla cronaca nera, in particolare dall’omicidio di Luca Sacchi, caso di “nera” che era soltanto all’inizio e che sarebbe diventato una lunga telenovela (ma ne parliamo tra poco); da una lettera di 250 dipendenti di Facebook che denunciavano il mancato fact-checking del social network sugli annunci politici e da nuove dichiarazioni di Giorgia Meloni utili solo a infiammare gli animi o a generare indignazione nel dibattito sull’odio lanciato dalla senatrice Liliana Segre.
Ad occuparci il cervello c’erano anche cose che ormai abbiamo dimenticato, come la polemica sui cosplayer vestiti da SS al Lucca Comics, o l’escalation all’inverso — dal grande al piccolo — di una polemica sul razzismo negli stadi, che arrivò fino a una partita dei ragazzini, o ancora, un momento meme che coinvolse il cantante Marco Carta, assolto in quei giorni dall’accusa di un furto alla Rinascente di Milano.
Nel caos generale alcune cose si ripetevano per l’ennesima volta (il maltempo in Liguria), altre iniziavano (l’affare dei dati personali degli utenti di Tik Tok il cui hype sarebbe stato raggiunto più tardi) e c ’era persino qualcuno che, senza saperlo, si portava avanti e organizzava, udite udite, dei concerti in streaming. Erano i Coldplay e chissà cos’hanno pensato quando questa pratica che all’epoca ci sembrava assurda, è pian piano entrata nella nostra nuova normalità.
(Im)mobilità (in)sostenibile
Generalmente, nel mondo dell’economia, si dice che, quando i grandi si fondono tra di loro, vuol dire che nel mercato qualcosa si è rotto. Ecco, esattamente un anno fa accadeva l’ennesima tappa della crisi del più grande settore industriale del mondo, quello delle automobili. Il 31 ottobre 2019, infatti, il gruppo francese PSA (che già fondeva Peugeot e Citroën) e FCA (società nata dalla fusione di altri due giganti, Chrysler e Fiat) annunciarono la propria fusione paritetica. Il nuovo gruppo nato da quella fusione si chiamerà Stellantis, avrà sede in Olanda e sarà il quarto gruppo mondiale nel mercato delle automobili con quasi 9 milioni di veicoli prodotti ogni anno.
Intanto che le cose procedono — poche settimane fa è stata annunciata la composizione del CDA, e alcuni nomi li conosciamo bene — questa notizia è una di quelle interessanti da ricordare sul lungo periodo. Sia perché a realtà come queste stiamo garantendo prestiti milionari durante l’emergenza Covid-19, sia perché questa matrioska di fusioni è un segnale inquietante per un mercato che, anche prima del Covid, era in difficoltà.
Da una parte c’è il fatto che il mercato delle automobili è già arrivato al suo picco – ne abbiamo parlato su Slow News nella serie Realismo automobilista — e rischia di non poter assicurare il futuro che ha promesso a miliardi di persone — tutti noi — che ne sono dipendenti; dall’altra c’è il fatto che la sfida delle mobilità sostenibile è tutta da giocare. Come se non bastasse, gli sforzi che le major stanno mettendo in campo per molti versi non sembrano sufficienti.
Senza contare un terzo fattore che mette a rischio l’intera economia globale, compreso il settore dell’auto ovviamente: il coronavirus, la cui prima ondata ha fatto crollare le vendite di automobili ai minimi storici e il cui futuro potrebbe avere un impatto ancora più devastante sulle vite di tutto coloro che, senza macchina, semplicemente non possono più sopravvivere.
Anche per questo in tanti si stanno iniziando a chiedere come sarebbe un mondo senza auto.
Il buongiornismo si vede dal Muccino
https://twitter.com/GabrieleMuccino/status/1188762773154598912
Giusto dodici mesi fa, questo post su twitter del regista Gabriele Muccino diede il via a una querelle via social che vista ora sembra assurda. A quel tweet fece eco il deputato di Italia Viva Luigi Marattin, che il 28 ottobre lo retwittò e il 29 lo cavalcò, dicendosi pronto a mettersi al lavoro per una proposta di legge sull’identità digitale.
La proposta del deputato renziano infiammò animi e cervella di centinaia di addetti ai lavori che si occupano di web e cybersecurity da anni e di fronte alle parole di Marattin si dichiararono praticamente all’unanimità “in imbarazzo”. Uno dei primi a scriverne fu Fabio Chiusi, giornalista specializzato in new media e oggi al lavoro per Algorithm Watch, una non-profit che fa un lavoro fondamentale di monitoraggio sull’impatto degli algoritmi e delle tecnologie nelle nostre vite. Il 28 ottobre Chiusi scrisse un articolone sul tema dell’odio in rete per Valigia Blu e il giorno dopo pubblicò un lungo post su Facebook che è ancora interessante da leggere.
Ne parlammo anche su Slow News. Il concetto che ci importava portare avanti è cruciale per la comprensione di internet e per un suo uso costruttivo. È quello dell’intelligenza collettiva.
La reazione di Marattin fu scomposta. Tutta quella polemica oggi è nel dimenticatoio, per fortuna, e non c’è nessuna legge Marattin in vista per mettere in pratica quei propositi. Ma l’odio e la disinformazione sono rimasti problemi seri e la politica non ha tuttora la minima idea di come si possano affrontare. Non solo in rete: nella vita tutta. A dimostrarlo è ancora una volta tutto ciò che accade intorno alla figura della senatrice Liliana Segre, di cui abbiamo già parlato la settimana scorsa. Proprio Segre, 12 mesi fa firmò per prima una mozione della maggioranza per l’istituzione di una commissione parlamentare per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo, istigazione all’odio e alla violenza su basi etniche e religiose.
Siamo ancora d’Accordo?
Per spiegare l’inadeguatezza del mondo dell’informazione di fronte alle sfide che la realtà ci sta imponendo, noi di Slow News amiamo ripetere una formula che troviamo efficace per rappresentare questa inadeguatezza. E una formula che abbiamo ascoltato per la prima volta dalla voce di Rob Wijnberg, il direttore di The Correspondent, e che prende come esempio i cambiamenti climatici. Se ci pensi, infatti, il clima non cambia in un giorno specifico, non succederà mai in un tale giorno. Non sarà mai una breaking news, non potremo mai titolare “il clima è cambiato”. Il clima però sta cambiando, lo fa ogni giorno che passa anche se il giornalismo continua a parlare del tempo che fa.
Perché questa premessa? Perché giusto giusto un anno fa si mise in moto una dinamica che non è ancora finita e che proprio questa settimana vivrà un momento decisivo: l’avvio della procedura di uscita degli Stati Uniti dagli accordi per il clima di Parigi (per rispolverare di cosa si tratta poi leggere questo articolo del New York Times oppure il riassunto del Post).
Era una notizia inaspettata? No: lo sapevamo dal 2017 (o meglio, da quando era stato eletto Trump). Il 4 novembre dell’anno scorso era semplicemente il primo giorno utile per uscirne. È ancora una notizia importante? Certo che sì.
Non sono pochi quelli che dicono che anche rispettare gli accordi di Parigi potrebbe non bastare. Ma intanto come lo possiamo giudicare quell’accordo a 5 anni di distanza? Ma soprattutto, a che punto siamo adesso? Puoi giudicarlo anche tu guardando la mappa del Climate Action Tracker: 168 nazioni non hanno ancora aggiornato il tracciamento degli obiettivi.
Il senso della cronaca nera e 486 sparatorie in un anno
Un anno fa parlavamo ancora del caso Luca Sacchi. Ne parliamo ancora adesso, così come parliamo spesso di casi di cronaca nera: è un genere che ha il suo fascino e, in qualche modo, anche il suo ruolo nella società.
Quando non c’erano i social e dovevi fare un pezzo di cronaca nera, c’erano cose che, da giornalista, ti facevano crescere il pelo sullo stomaco. Ma ti facevano venire anche un sacco di dubbi su quel che facciamo quando facciamo questo mestiere, cosa di cui parliamo raramente con chi questo mestiere non lo fa.
Bisognava trovare una foto di chi era morto per far contento il caporedattore. Mica potevi saccheggiare le pagine Facebook, quando non esisteva. Così andavi a cercarla direttamente dalla famiglia, che aveva il suo lutto da gestire. Era solo una delle tante pratiche discutibili che oggi sembrano ancor più discutibili se ci pensiamo bene.
Ma il grosso dell’attenzione, quando si fa “nera”, va a chi ha commesso il crimine. Raramente alle vittime. Ancor più raramente a chi sopravvive. Se ci si interessa alle vittime, lo si fa in maniera morbosa. E sono proprio i dettagli morbosi, quelli più vicini al gossip, a suscitare più interesse sia da parte di chi scrive sia da parte di chi legge
Basta pensare al fenomeno – fortunatamente a noi distante – dei mass shooting in USA. Di quanti profili degli sparatori vengono pubblicati.
Sai quanti mass shooting ci sono stati nel 2020? Probabilmente no, perché abbiamo parlato quasi solo di COVID e polemiche relative.
Ce ne sono stati 486, fino al 2 novembre. Con 392 persone uccise e altre 2052 ferite.
Raramente chi si occupa di questi argomenti professionalmente ha un addestramento specifico, che ti insegni come trattare, ad esempio, l’intervista alle vittime. Il fenomeno di massificazione e trasformazione in intrattenimento del genere giornalistico della cronaca nera ha fatto il resto, trasformando sempre più questo tipo di contenuti giornalistici in qualcosa di molto lontano dall’obiettivo di informare e rendere più consapevoli cittadine e cittadini.
Senza uno scopo più “alto”, la cronaca nera rischia davvero di ridursi al solo infotainment. E di prendere sfondoni, come quando un femminicidio viene descritto prendendo le parti dell’assassino, di solito descritto come in preda a emozioni incontrollabili. Giustificandolo, appunto.
Ci sono soluzioni per uscirne? Forse sì, anche come lettrici e lettori.
- cercare di capire il contesto (politico, sociale, economico, culturale) in cui un fatto di “nera” è avvenuto
- esercitarsi a problematizzare
- esercitare l’empatia nei confronti delle vittime prima di tutto. E sforzarsi di esercitarla anche nei confronti dei carnefici, anche se è difficile. Il che non significa giustificarli, esaltarli, dipingerli come povere vittime o dar loro visibilità, ma significa tentare di capire cos’è successo
- pensare a come prevenire, chiedere soluzioni (che raramente sono: più controllo e più repressione). Per esempio: se è vero che, come affermano in molti, una società più presente in termini di accoglienza del prossimo, un tempo libero più strutturato per i giovani, un investimento nel welfare tendono a prevenire i crimini “di strada”, perché non cominciare a far pressioni sulla politica per questo tipo di idee?