Termini e condizioni: Twitter e Facebook contro Trump e le domande da farsi
Di fronte alla scelta dei due social il mondo si è diviso tra chi urla alla censura e chi ritiene che sia giunto il momento. Ma è davvero così semplice?
Covid was coming
Il 7 gennaio del 2020 fu un giorno come tutti gli altri che lo avevano preceduto, almeno così pensavamo. Eppure, mentre fantasticavamo sull’operazione di SpaceX, che portava in orbita decine di satelliti con l’obiettivo di trasmettere Internet dallo spazio, mentre ci schieravamo come sempre in tifoserie di fronte alla decisione di Facebook di eliminare dalla piattaforma i cosiddetti deepfake, mentre ancora pensavamo che la minaccia incombente fosse una terza guerra mondiale scatenata dall’uccisione del generale Suleimani, mentre applaudivamo una ulteriore incriminazione di Harvey Weinstein per altri casi di stupri, sui giornali di tutto il mondo iniziò a girare una notizia che letta oggi dà la vertigine.
Basta rileggere uno di quei titoli per sentire un brivido nella colonna vertebrale. Ecco quello della CNN:
«Un virus misterioso sta rendendo nervosa la Cina (e il resto dell’Asia). Non è SARS, ma allora che cos’è?»
Ora sappiamo la risposta, anche se in realtà del virus che ci sta tenendo in scacco da un anno non sappiamo ancora tutto, anzi.
Intanto che le autorità di Wuhan iniziavano a imporre la quarantena in città con misure che a noi parevano da film di fantascienza, e intanto che si registrava il primo morto ufficiale (11 gennaio), dalle nostre parti dedicavamo quella settimana – a posteriori i nostri ultimi giorni di spensieratezza e libertà per un bel pezzo – dibattendo, in serie, di robe tipo il caso Harry & Megan e la conseguente reazione della regina Elisabetta alle scelte della coppia, o il caso relativo alla ministra Azzolina che avrebbe copiato dei passaggi della sua tesi per l’abilitazione all’insegnamento di sostegno.
A riguardarsi indietro ci sono anche un paio di coincidenze curiose.
In questi giorni c’è stata una gaffe di Mentana, che commentando in diretta gli eventi che stavano infiammando Washington, ha preso per vero un filmato che in realtà era un film.
Beh, un anno prima, ora più ora meno, sempre su LA7 veniva diffuso un video spacciato come il video dell’uccisione del generale iraniano Suleimani, poi ripreso da diversi siti tra cui Rai News e Libero, che però non era quello che sembrava essere. In quel caso si trattava del video di una scena di un videogioco. Se non fosse che si tratta di media con un grandissimo impatto sull’opinione, farebbe quasi ridere. Invece è drammatico, perché c’è un modo per contenere questi errori: mettere un grosso filtro. Un filtro che si chiama: non pubblichiamo (o mandiamo in onda, è uguale) niente che non sia stato verificato prima. Nemmeno se siamo live.
Anche la grande disputa di questa settimana, quella che in seguito alla sospensione dell’account di Twitter di Donald Trump ha trasformato i social in un campo di battaglia. Da una parte chi grida alla insopportabile censura e all’ingerenza delle piattaforme private nella vita democratica dell’Umanità; dall’altra chi sostiene che tra la libertà di espressione e la libertà di aizzare la gente contro le istituzioni c’è una bella differenza. Bene, un anno fa esatto, sia Facebook che Twitter si sporcavano le mani su problematiche simili, ovvero sulla possibilità di decidere loro cosa sta sulle loro piattaforme e come ci sta: Twitter iniziava a sperimentare una funzione per limitare o vietare le risposte ai tweet, mentre Facebook annunciava di voler rimuovere i video cosiddetti deepfake. Perché da più parti si chiedeva alle piattaforme di far qualcosa per limitare, ad esempio, la circolazione delle fake news.
Il problema è che quando chiedi qualcosa a chi ha tanto potere, va a finire che poi quel qualcosa te lo concede. A modo suo.
Ed è così che cominciamo, su Fixing News, a parlare non solo dell’attualità che fu ma anche di quella che è.
Termini e condizioni. Twitter, Facebook e le eccezioni per Trump
di Pasquale Ancona
Dal momento in cui Twitter e Facebook hanno disabilitato gli account social del Presidente degli Stati Uniti uscente Donald Trump, da ogni parte del mondo sono stati scritti pezzi di opinione sulla questione.
Dovunque pensatori e intellettuali – così come persone normali – continuano a chiedersi se cancellare gli account di quello che, ancora qualche giorno, è l’uomo più potente del mondo sia legittimo oppure no.
In ogni dove – Italia compresa – si è urlato alla censura o, viceversa, tirato un sospiro di sollievo perché “era ora di dire basta”: tutti sembrano avere le risposte. Ma visto che sono risposte diverse, a volte anche diametralmente opposte, forse dovremmo chiederci se ci stiamo facendo le domande giuste.
Mettere a fuoco la complessità di questa vicenda è un compito importante, soprattutto nell’era degli opinionisti ad ogni costo e della necessità di avere una risposta pronta a qualsiasi sollecitazione.
TERMINI E CONDIZIONI
Partiamo dai fatti. A qualche ora di distanza dall’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, Twitter, il social network preferito dal quasi ex presidente degli Stati Uniti ha deciso di sospenderne l’account personale, e di cancellare i tweet che da quel momento venivano lanciati da quello istituzionale.
Nella nota diffusa dall’azienda di San Francisco si legge:
“Dopo aver revisionato i più recenti tweet di @realDonaldTrump e averli contestualizzati, analizzando come vengono recepiti e interpretati su Twitter e fuori, abbiamo deciso di sospendere permanentemente l’account per evitare ulteriori rischi”.
Le ragioni della decisione sono da ricercarsi nei TOS (Terms of Service), in italiano i “Termini e condizioni” che chi si iscrive a Twitter accetta.
In particolare, alla voce “Regole e norme”, si legge:
Twitter aveva già iniziato nella primavera del 2020 a “etichettare” i Tweet di Trump non rispondenti alla realtà. L’aveva già fatto anche con Bolsonaro, con Giuliani, con Maduro e da ottobre del 2019 aveva deciso di bloccare tutte le inserzioni politiche sulla sua piattaforma.
Ma ora le cose si sono fatte decisamente più intense. Anche a Facebook hanno preso la medesima decisione, addirittura annunciata con un post dall’account personale di Mark Zuckerberg. Il gruppo di lavoro di First Draft sta aggiornando dal 6 gennaio un elenco puntuale di azioni intraprese da piattaforme e servizi digitali dopo l’assalto al Congresso da parte dei sostenitori di Trump: si può consultare cliccando qui.
ALTRE DOMANDE
Se l’esistenza dei TOS consente alle aziende che erogano servizi digitali di agire in questo modo, perché tutto questo è accaduto solamente ora? Trump incita continuamente all’odio e alla violenza da anni, e – anche solo negli ultimi due mesi – ha continuato a negare la validità di una elezione che si è svolta nel rispetto delle regole.
D’altra parte, però, se il Presidente degli Stati Uniti d’America incita alle violenze, le persone di tutto il mondo non dovrebbero saperlo?
Quello di Facebook è Twitter è solamente un tentativo di salvare la faccia?
Facebook e Twitter cosa sono? I Social network cosa sono? Sono editori? Sono delle piattaforme?
E in tutto questo, che ruolo hanno avuto i media tradizionali nell’amplificazione dei messaggi di Trump? Che ruolo hanno avuto i media schierati a suo favore (come Fox News) ma anche quelli a lui avversi?
PARERI AUTOREVOLI
Benedict Evans uno dei più famosi venture capitalist della Silicon Valley, ha affrontato la questione proprio a partire da una definizione dei social. In un tweet, Evans risponde dicendo che i social non sono né editori né piattaforme, e che quindi non si può tentare di inquadrarli con un’etichetta pre-esistente. Non sono editori, perché, come loro stessi affermano, non sono in grado di vigilare su ogni singolo contenuto pubblicato sulle proprie pagine [fra l’altro, secondo la Section 230 of the Communications Decency Act non ne sono nemmeno responsabili, ndr]. Non sono piattaforme, perché nessuno dei contenuti che riportano vive in maniera indipendente dal proprio ecosistema.
https://twitter.com/benedictevans/status/1347840674159329280?s=20
Jeff Jarvis, professore di Journalism Innovation della Craig Newmark Graduate School of Journalism alla City University di New York e autore del blog BuzzMachine, si concentra sul ruolo dei media: secondo Jarvis, infatti, Trump non ha manipolato Twitter, ma ha manipolato i media passando per Twitter.
Tutto il discorso sulla disintermediazione dell’informazione nell’era dei social media sta proprio in questo concetto, che è riassunto molto bene in un’immagine tratta dalla seconda edizione del Verification Handbook
IL GROSSO “MA” DI CASEY NEWTON
Casey Newton è un ex giornalista di The Verge che si occupa di tecnologia e cultura: da poco ha dato vita alla sua personale newsletter che si chiama Platformer e si occupa di democrazia e Silicon Valley. Newton ha sostenuto a lungo che Twitter e Facebook non dovessero intervenire in forma censoria nei confronti di Trump, per vari motivi, anche pratici. Per esempio, Trump avrebbe potuto lanciare i suoi messaggi su altre piattaforme. E dei bot avrebbero potuto occuparsi di rilanciare la sua opinione anche su eventuali piattaforme che l’avessero bloccato. [In realtà, è una cosa che stera diventata realtà, per esempio, su Parler. Solo che nel frattempo, sempre dopo i fatti del 6 gennaio, Amazon ha disabilitato i server di Parler e ora, dall’11 gennaio 2021, la piattaforma utilizzata dall’ultradestra americana è irraggiungibile].
Ma questa volta è diverso, dice Newton nel suo articolo intitolato “It’s time to deplatform Trump”.
È diverso perché quello del 6 gennaio è stato un tentativo di «colpo di stato progettato e reso possibile dai social media».
E dunque, questo era il momento di intervenire.
L’ECCEZIONE SECONDO BEN THOMPSON
Anche Ben Thompson, famoso analista americano di business, tecnologia e media, ha provato a mettere a fuoco questa complessità nella sua newsletter Stratechery.
Nella sua analisi, Thompson spiega che il giusto livello decisionale per eventi come questo è quello politico: l’impeachment di cui si parla in questi giorni per aver istigato alla violenza. Ma se il giusto livello decisionale non può prendere la decisione giusta – continua Thompson – allora è il momento che Facebook e Twitter trattino Trump per quel che è: un’eccezione.
Certo, se Trump dice qualcosa contro gli afroamericani, per esempio, e una piattaforma ne cancella il post, questo non cancella il fatto che lui lo pensi o lo dica. Semplicemente nasconde quel post alle persone che si trovano su quella piattaforma. È un bene?
«È sicuramente una cosa sbagliata in linea generale, ma in questo momento andava fatta».
E a questo punto ci si chiede: quello che Twitter e Facebook hanno fatto può sembrare scorretto da un certo punto di vista, ma può rispondere a un più generale concetto di buon senso?
C’è un’altra domanda che si è vista poco in giro, ma che varrebbe la pena di farsi: le piattaforme hanno agito spontaneamente? Oppure qualcuno, a qualche livello – diciamo il livello decisionale “giusto” – abbia chiesto alle aziende che Trump utilizza da anni come strumento di propaganda e di sobillazione di intervenire per tutelare la sicurezza nazionale?
E poi c’è un’ultima domanda, quella decisiva: che fare, una volta che l’eccezione sarà finita?