Siamo davvero pronti ad una riapertura generale a maggio?
I casi di Israele, UK e Cile devono guidarci nel piano per la riapertura in Italia: a due settimane da maggio, siamo davvero pronti?
Mancano due settimane alla scadenza delle misure restrittive in vigore in tutta Italia e il dibattito sulla riapertura generale a partire da maggio è più acceso che mai. Le Regioni sono in pressing da giorni sul governo, le proteste delle categorie che più stanno soffrendo per le chiusure si svolgono ormai su base quotidiana da una parte all’altra del Paese e anche le forze che compongono la maggioranza si lanciano in dichiarazioni e promesse che non sempre sembrano tenere conto dell’andamento della pandemia e della campagna vaccinale che non riesce ad intensificarsi.
Maggio sarà davvero il mese della riapertura? Probabilmente sì, alla fine anche Mario Draghi dovrà cedere alle pressioni. Siamo pronti a riaprire tutto? Forse sì, ma riaprire come abbiamo già fatto in passato non sarà sufficiente a tenere sotto controllo il contagio in un momento in cui appena 4 milioni di italiani possono dirsi protetti dal virus.
Oggi l’infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, si è detto a favore di una riapertura a partire da maggio, ma riconosce che l’Italia non è pronta come lo sono stati altri Paesi:
Si può fare. O meglio, si potrebbe fare avendo il vaccino e la fiducia della gente. Certamente siamo meno bravi e siamo stati meno previdenti di altri Paesi sotto una serie di aspetti, ma si può fare. E’ ora di avere anche un pochino di carota e non solo di bastone. Se in Israele l’hanno fatto, se in altre parti lo stanno facendo con una certa rapidità, vuol dire che si può fare. Però, se si aprono le scuole in questo momento, ritarderemo il processo.
Per Galli uno degli errori commessi dall’esecutivo di Mario Draghi è stato quello di disporre la riapertura delle scuole in tutta Italia, indipendentemente dal colore assegnato di settimana in settimana alle Regioni. Galli cita l’esempio di Israele e della Gran Bretagna, ma precisa che il confronto con l’Italia non può essere più errato.
Il caso di Israele. Perché è stato possibile riaprire?
Israele è il Paese più virtuoso sul fronte della campagna vaccinale e il piano per la riapertura è stato condizionato proprio dal successo dei vaccini. Israele non ha deciso di riaprire tutto senza cognizione di causa, ma ha messo in piedi una sorta passaporto vaccinale, il Green Pass, che permette sì la riapertura di attività che a lungo sono state chiuse, dalle palestre ai cinema, ma soltanto per quei cittadini che possono dirsi protetti dal virus o con basso rischio di contagio: le persone già vaccinate, le persone che hanno già contratto l’infezione da COVID-19 e le persone negative ai tamponi.
Una strategia ponderata che, ad oggi, si sta rivelando efficace: dopo il picco di contagi raggiunto lo scorso gennaio, la curva dell’epidemia in Israele è calata settimana dopo settimana e negli ultimi giorni, nonostante le riaperture, non dà segnali di ripresa. I decessi per COVID-19 sono stati azzerati e i contagi giornalieri si assestano tra le 150 e le 300 unità.
Riapertura generale da maggio: il caso del Regno Unito
Citare il Regno Unito come esempio da seguire in tempi rapidi significa non conoscere la situazione epidemica nel Paese. La campagna vaccinale nel Regno Unito è tra le più virtuose del Mondo, seconda soltanto ad Israele, ma il premier Boris Johnson ha scelto un approccio diverso: ha messo in sicurezza i cittadini che più rischiano gravi conseguenze contraendo l’infezione da COVID-19, ma ha anche messo in guardia i cittadini dall’inevitabile ripresa dei contagi.
I numeri dei contagiati e dei morti sono calati ma è molto importante che tutti capiscano che non è il vaccino che ha ridotto i contagi e i morti. È stato, in larga parte, il lockdown. Sicuramente la campagna vaccinale ha aiutato ma il grosso del lavoro nel ridurre la diffusione della malattia è dovuto al lockdown. Quindi se riapriamo il risultato sarà inevitabilmente che vedremo aumentare il numero dei contagi e tristemente delle ospedalizzazioni e dei morti.
Riaprire tutto senza mettere in atto precauzioni simili a quelle decise da Israele significa riaprire tutto per una manciata di settimane. Lo dimostra quello che sta accadendo in Cile.
Il caso del Cile. Si torna in lockdown nonostante i vaccini
Il mese scorso il Cile poteva vantare una delle campagne vaccinali più virtuose, proprio come Israele e Regno Unito. Alla fine di marzo il Paese guidato da Sebastián Piñera era riuscito a vaccinare con almeno una dose di vaccino quasi la metà della popolazione col siero di Pfizer/BioNTech e col vaccino cinese Sinovac. Le priorità erano simili alle campagna di vaccinazione di altri Paesi, dagli over 90 a scendere, passando per tutte le persone con malattie pregresse e altri problemi di salute.
Forte di quel risultato raggiunto in poco tempo, il Cile ha iniziato ad allentare le restrizioni. Alla fine del gennaio scorso cinema, circhi e teatri sono potuti tornare in attività, anche se con capienza limitata, e lo stesso è accaduto nelle settimane successive coi casinò e le attività scolastiche: dal 1° marzo si è tornata con le lezioni in presenza al 100%.
Il contagio, però, ha ripreso a salire e il 20 marzo scorso il Paese ha registrato il più alto incremento giornaliero dei contagi dall’inizio della pandemia (7.084 casi in 24 ore). I motivi sono diversi, ma l’Istituto della Salute Pubblica del Cile ha puntato il dito contro la diffusione delle varianti del virus che il resto del Mondo conosceva da tempo: la variante inglese e quella brasiliana. Non solo. L’epidemiologa Ximena Aguilera che funge da consigliere del governo cileno ormai da mesi, sottolinea che il falso senso di sicurezza legato ai numeri delle vaccinazioni ha portato ad una diffusione del contagio tra i più giovani.
E così, di fronte ad una nuova ondata di pandemia, più dell’80% dei 19 milioni di cittadini del Cile si trova ancora una volta in lockdown. E non un lockdown come quelli che abbiamo vissuto anche in Italia: durante il fine settimana non si può uscire di casa neanche per fare la spesa o per acquistare farmaci e durante la settimana ogni persona può uscire di casa soltanto due volte e per un breve periodo di tempo per acquistare beni essenziali e per fare attività fisica all’aperto.
Siamo pronti ad una riapertura generale a maggio?
Torniamo alla domanda di apertura: siamo davvero pronti ad una riapertura generale a partire da maggio? I dati ci dicono che non possiamo permetterci di guardare ad Israele e non sappiamo ancora cosa succederà nel Regno Unito sul fronte dei contagi dopo le riaperture già in corso. E il caso del Cile potrebbe essere un’anticipazioni di quello che accadrà nel Regno Unito tra una manciata di settimane. Cosa possiamo fare? Possiamo guardare a questi Paesi, vedere cosa ha funzionato e cosa no e fissare una serie di riaperture a partire da maggio con criteri più restrittivi rispetto a quanto abbiamo fatto in passato.
Gli strumenti ci sono, perchè non utilizzarli? Perché non riaprire le palestre obbligando i clienti ad un tampone rapido prima dell’ingresso? E perché non fare lo stesso con cinema, teatri e spettacoli? Servono regole ferree che permettano un ritorno in sicurezza ad una semi-normalità, bilanciando i rischi che si è disposti a correre con l’aspetto economico. Perché non rendere obbligatoria la prenotazione per pranzare e cenare nei ristoranti? Riaprire, anche in modo graduale, senza però mettere in atto protocolli più rigidi – e controlli serrati – rischia una ripetizione di quanto accaduto la scorsa estate, con un via libera di qualche settimana che ha poi portato a mesi di lunghissime chiusure per gran parte dell’Italia.