Una liberazione senza libertà
Il primo 25 aprile senza la possibilità di manifestare in piazza, le polemiche sarcastiche sui “congiunti”, e la COVID-19 che arriva in Africa, o no?
Un anno fa, per la prima volta dal dopoguerra ad oggi, l’Italia si apprestava a vivere il più grande dei paradossi: festeggiare la Liberazione, come ogni 25 aprile, ma da prigionieri. Ognuno nelle proprie case, con il divieto di assembramento in piazza e, a ricordarci della più importante festa nazionale, soltanto eventi virtuali, sui social, in streaming.
Nelle settimane precedenti in molti avevano sperato che il 25 aprile coincidesse con la Liberazione anche dalla Covid-19, ma non fu così e ora che ci apprestiamo a vivere il secondo 25 aprile dell’epoca del coronavirus questa consapevolezza ha un gusto ancora più amaro. Non siamo più sottoposti a un confinamento così duro come l’anno scorso, è vero, ma questa emergenza che si è tirata talmente per le lunghe da essere diventata una terrificante normalità forse è persino peggio.
Di tutti quei momenti di festa senza festeggiamenti, di quegli eventi social in streaming che facevano annunciare ad alcuni che quello era il 25 aprile più ricco di eventi di sempre, a un anno di distanza non è rimasto nulla. Probabilmente solo un’immagine, terribile, ci è rimasta in testa: quella del presidente della Repubblica Mattarella che scende le scale dell’Altare della Patria da solo, con la mascherina a coprirgli il viso, elegante ma fredda e triste come una pubblicità di un marchio di alta moda o di un profumo.
Il resto di quella settimana fu segnato da polemiche assurde, che per fortuna ci siamo ampiamente dimenticati anche se all’epoca — come praticamente sempre d’altronde — sembravano aver monopolizzato l’attenzione di tutti, quanto meno sui social: Vittorio Feltri fece una serie di affermazioni offensive nei confronti dei meridionali (un classico, quasi), e molti edicolanti per protesta si rifiutarono di continuare a vendere Libero. Poi ci fu Trump che se ne uscì con la proposta di iniettare il disinfettante ai malati per sconfiggere il coronavirus e, dopo che quel delirio fece il giro del mondo sette volte, quando gli fecero notare che non era una furbata pretese di convincere il mondo che in realtà stava scherzando. È anche grazie a questi dettagli che oggi sapere che al suo posto c’è Joe Biden fa tirare un sospiro di sollievo, qualsiasi opinione si possa avere di Biden.
Negli stessi giorni iniziò a girare una voce che dava per morto Kim Jong-un, che in poche ore fece il giro del mondo pure quella, ma che venne smentita persino dal governo della Corea del Sud. In Italia, intanto, il nostro sagace sarcasmo fece il suo show su due argomenti su cui ora, in verità, persino a un anno di distanza, si continua a ironizzare di tanto in tanto: la procura di Bari dispone il sequestro di decine di canali Telegram che pubblicano illecitamente copie di giornali e sui social non pochi fanno notare che alcuni quotidiani non li leggerebbero nemmeno gratis; e, ancora, dopo l’annuncio delle prime aperture previste per il 4 maggio e della possibilità di andare a trovare i fantomatici “congiunti”, la domanda che si fecero tutti, con ironia, ma anche no, fu: ma chi diavolo sono i “congiunti”?
Intanto che ci dimenavamo su questioni tutto sommato di poco conto, se non completamente inutili, in Italia succedevano cose molto più importanti. C’era, come al solito in Lombardia, regione in cui la gestione dell’epidemia è stata al centro di decine di polemiche lungo tutto l’anno (e non sono ancora finite) il problema dei malati “sospetti” di COVID, che non vengono testati e che formalmente non esistono da nessuna parte, ma, soprattutto, c’era una notizia allarmante che riguardava i diritti delle donne e a cui prestammo troppa poca attenzione, come troppo spesso capita quando si parla di diritti delle donne: le associazioni denunciarono che la pandemia stava mettendo a rischio il diritto all’aborto. Ci torneremo.
Questo succedeva in Italia, e all’estero? Nel Regno Unito Facebook annunciò che avrebbe chiesto agli utenti se hanno avuto sintomi da coronavirus e la Germania decise che sarebbe stato obbligatorio indossare le mascherine (pensarci ora fa stranissimo eh?). Sul piano della lotta alla malattia, invece, quella fu la settimana in cui il farmaco Remdesivir, che per alcuni sarebbe stato una speranza per le cure, sembrò non dare gli effetti sperati, mentre la Corea del Sud potè annunciare il “free covid”, visto che per 40 giorni consecutivi non si registrarono contagi, come anche in Nuova Zelanda. Al contrario, la maglia nera quella settimana passa all’Ecuador, che secondo il New York Times aveva un tasso di mortalità molto più alto di quello reso pubblico.
Nel frattempo il mondo continua il suo giro e, su alcune cose, lo continuava sempre allo stesso modo: l’Argentina era ancora a rischio fallimento per via dei debiti verso i creditori internazionali; in Siria un attentato ad Afrin uccideva almeno 40 persone e un altro, in Mozambico altre 52. In Egitto, intanto, continuava l’odissea, non ancora finita purtroppo, di Patrick Zaki, che in quei giorni vedeva rinviata per la sesta volta l’udienza che avrebbe dovuto decidete la sua sorte. In molti, poi, si cominciavano a preoccupare dell’impatto del coronavirus su un continente già messo alla prova da guerre, carestie, instabilità politica e cambiamenti climatici: l’Africa.
Già, l’Africa. Che ne è stato di questo anno pandemico nel continente in cui vive quasi un quinto del genere umano?
Il virus è vecchio, l’Africa giovane e calda
di Andrea Spinelli Barrile
In Africa, un continente che conta 55 nazioni e circa 1,3 miliardi di abitanti, il Covid-19 ha colpito con numeri sorprendentemente bassi meravigliando un po’ tutti, soprattutto chi (Organizzazione Mondiale della Sanità, OMS, in testa) paventava effetti drammatici, con contagiati e morti in “milioni di persone”. Il primo caso è stato riscontrato il 14 febbraio 2020 in Egitto, una persona la cui identità e nazionalità non sono mai state rivelate, mentre il “paziente zero” in Africa subsahariana, secondo caso in tutto il continente, è emerso il 28 febbraio in Nigeria, un cittadino italiano atterrato a Lagos tre giorni prima.
Da allora, e fino al 19 aprile 2021, sono poco più di 4,4 milioni i casi identificati in tutto il continente, di cui 1,5 milioni solo in Sud Africa. L’Africa, che rappresenta il 17% della popolazione mondiale, ha registrato appena il 3,14% dei casi di infezione. Uno scenario curioso, se paragonato a quello del resto del mondo, che non si spiega con la semplificazione del “sono poveri, fanno pochi test quindi trovano pochi malati”: le cose non stanno così.
Molti sostengono che sia il clima caldo a scoraggiare la moltiplicazione del virus ma è tutto ancora da dimostrare. Se è vero che i paesi più colpiti hanno climi temperati questo non è proprio vero in Africa: Marocco, Tunisia ed Egitto sono tra i paesi più colpiti. In generale il continente presenta più o meno ogni tipo di clima, da quello desertico fino a quello nevoso di alta montagna. L’età media della popolazione potrebbe invece essere una risposta più plausibile all’alta resistenza africana al virus Covid-19: nel continente la media è di 19,4 anni e oltre il 60% della popolazione in Africa ha meno di 25 anni. Solo il 5% degli africani ha più di 65 anni, la fascia d’età più colpita a livello globale: in Italia questi sono il 23,1% della popolazione. In Europa e in nord America gli anziani vengono spesso confinati nelle case di riposo (in Italia tra i luoghi più infettanti in assoluto) mentre in Africa sono, molto più di frequente, il fulcro dei nuclei familiari. Certo la giovane età del continente non spiega tutto: l’HIV, capace di indebolire le difese immunitarie di chiunque, è uno dei virus più diffusi. Inoltre la densità della popolazione, eccezion fatta per Algeria, Marocco, Egitto, Nigeria e Sudafrica ed altre immense megalopoli sparse nel continente, come Kinshasa in Repubblica Democratica del Congo, è di gran lunga inferiore rispetto ad altre parti del mondo. In tutto il continente la media è di 42 abitanti per chilometro quadrato (in Italia 207, in Europa 111,5) e se è vero che ci sono eccezioni clamorose come Lagos o Abuja in Nigeria è anche vero che, e lo afferma l’OMS, in generale la bassa densità abitativa è un fattore positivo.
Un altro elemento da analizzare riguarda la capacità di viaggiare (su lunghe tratte, magari intercontinentali) delle popolazioni africane, decisamente più ridotta rispetto al resto del mondo. I paesi più colpiti sono in effetti quelli in cui risiedono più viaggiatori in assoluto, in particolare Sudafrica e Nigeria dove i contagiati sono in genere nella fascia economicamente più alta della popolazione. Questo, secondo diversi studi, si spiega sia con la possibilità di viaggiare (quindi contrarre il virus e portarselo a casa) che con una mera questione alimentare: in Africa le fasce economicamente più alte sono anche quelle che in media soffrono maggiormente di malattie respiratorie o cardiache, spesso riconducibili ad uno stile di vita e a una dieta ricca di grassi.
Ci sono poi anche dei fattori storici: in Africa la parola “epidemia” suona purtroppo familiare a molti e se questo può da un lato spaventare dall’altro la capacità e la velocità di risposta a una crisi sanitaria, in termini di isolamento dei malati, abitudine del personale sanitario, buone pratiche già attuate (ad esempio il lavarsi spesso le mani è, in molte nazioni dell’Africa occidentale, molto più che un abitudine), risposta della popolazione, è maggiore che altrove.
In seguito all’epidemia di Ebola del 2014-2017 l’OMS e l’Unione Africana (UA) hanno messo a punto nuovi protocolli sanitari e aumentato la capacità di risposta in 40 nazioni del continente. Il risultato di questo lavoro è stato visibile a fine febbraio 2020, dopo il primo caso in Nigeria: l’UA ha attivato una task force incentivando i paesi membri a mettere in comune tutti i dati sanitari dei contagiati e le autorità locali hanno rapidamente istituito forme di controllo a tappeto, di confinamento dei contagiati e di chiusura delle frontiere. La scelta di muoversi come una comunità da parte dell’intero continente ha sopperito alla grave carenza di strutture ospedaliere, laboratori di ricerca e di analisi e questo è stato evidente anche a livello sociale: in nazioni come la Liberia o la Sierra Leone la crisi di Ebola ha permesso ai governi di accumulare esperienza in termini di capacità di comunicazione e ai cittadini in termini di sensibilità al messaggio. Per la stessa ragione la cooperazione tra Stati si è fatta più assidua, sopperendo alle esigenze con la solidarietà, mentre nelle comunità locali si è riusciti a trasmettere con efficacia i messaggi di prevenzione e a individuare rapidamente i casi di contagio, evitando che i malati fossero lasciati a se stessi con il rischio di allargare l’epidemia.
Nel corso della prima ondata le misure drastiche di protezione adottate sin da subito dai paesi africani, secondo l’OMS, sono il fattore principale che spiega un numero così basso di contagi nel continente, così come lo è l’identificazione immediata degli individui più a rischio (i viaggiatori), che ha facilitato il rallentamento dell’epidemia.
Tutte queste sono solo ipotesi, o concause, sulle quali gli scienziati africani stanno concentrando i loro sforzi per capire il perché del basso impatto del Covid-19 in Africa. La questione vera, nel 2021 e in futuro, riguarda i vaccini e la cosiddetta “geopolitica dei vaccini”: l’OMS, con il programma di condivisione vaccinale Covax, è presente in quasi tutti i paesi del continente ma ancor di più lo è, ad esempio, la Cina con il suo Sinopharm. Il rischio dello scarso approvvigionamento è che la campagna vaccinale del continente africano sia troppo lenta, con conseguenze a catena per tutto il mondo.
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