Effetti collaterali
Stavamo per vedere la fine del (primo) tunnel, ci abituavamo alla tragedia quotidiana ma dimenticavamo le emergenze di prima, inquinando sempre di più.
Un anno fa ci sembrava quasi fatta. Non eravamo ancora alla fine del primo, durissimo lockdown, che sarebbe terminato il 18 maggio, ma la luce in fondo al tunnel la vedevamo già. Solo non sapevamo che non sarebbe stato l’ultimo, di tunnel, e che ci aspettava un futuro pieno di gallerie. In quei giorni, tra fine aprile e inizio maggio, si iniziava infatti a parlare della “Fase 2” e Roberto Speranza, ministro della Salute, firmava il decreto sul monitoraggio delle regioni.
Fu Vittorio Colao, che era a capo della task force organizzata dal governo Conte ad annunciare il prossimo passaggio alla fase 2 attraverso un’intervista al Corriere della Sera. Tra le altre cose, disse che «L’approccio non dovrà essere nazionale e neppure regionale, ma microgeografico: occorre intervenire il più in fretta possibile, nella zona più piccola possibile. Abbiamo indicato al governo un processo. L’importante è che le misure siano tempestive; nella speranza che non siano necessarie». Ad oggi, l’approccio unico nazionale è stato abbandonato, e Vittorio Colao è diventato Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale del governo Draghi.
Nel frattempo, mentre i morti causati dal coronavirus in Italia si stavano assestando intorno ai 300 al giorno e, un po’ come oggi, la tendenza era in forte ribasso tanto che entro qualche settimana saremmo arrivati a sfiorare lo zero, si fanno ancora tante supposizioni sulla natura del virus, che ancora non conoscevamo quasi per niente. La natura intrinsecamente dubitativa dell’approccio scientifico, che non ha subito la verità e che lavora su tempi necessariamente lunghi, sono stati uno dei principali scogli per quanto riguarda la comunicazione, soprattutto a livello giornalistico mainstream, un mondo che ha bisogno di fare titoli ogni giorno, anche a costo di scrivere qualcosa che in seguito sarebbe stato smentito. in questo contesto, proprio in quei giorni viene annunciata la nascita di un giornale nuovo, si chiamerà Domani e dietro all’operazione c’è Carlo De Benedetti.
In quei giorni, per esempio, ci si chiede se ci sia un legame tra sindromi infiammatorie infantili e coronavirus. A un anno di distanza se ne parla ancora, e pare che durante la prima ondata ci siano stati circa 150 casi di questa sindrome. Negli Stati Uniti intanto si autorizza l’uso del farmaco antivirale Remdesivir per contrastare il virus, ma a tutt’oggi l’OMS lo sconsiglia. Sono anche i giorni in cui in Italia si dibatte sul numero dei morti causato dalla prima ondata. E c’è addirittura chi mette in giro la voce che in realtà nel 2020 siano morte meno persone rispetto al 2019. In realtà non è per niente vero. Tutt’altro, pare infatti che nel solo mese di marzo la mortalità in Italia sia aumentata del 50 per cento.
Dal punto di vista mediatico, un piccolo aiuto ai giornali per “rallentare” arriva in quei giorni dalla Protezione Civile, che il 30 aprile tiene l’ultima conferenza stampa sull’epidemia e decide di pubblicare gli aggiornamento solo online. Conterà qualcosa? Non troppo purtroppo, visto che tutti i media mainstream continuano a dare spazio ogni sera al bilancio dei morti e dei contagiati. Sul fronte istruzione, intanto, mentre le scuole sono ancora chiuse fino al 17 maggio, la ministra Azzolina dice che l’esame di maturità si farà in presenza e che l’orale varrà 40 punti e che a settembre si tornerà a scuola in presenza.
Sono giorni concitati anche in Parlamento, nonostante il lockdown infatti, i parlamentari della Lega lo occupano per protestare contro il governo, mentre Giorgia Meloni alla Camera dice che deve essere lei a dar loro lezioni di democrazia. Fa sorridere? Sì, un po’. Tra le altre polemiche della settimana che ci tenevano occupati — o è più corretto dire “distratti”? — va sicuramente segnalata l’uscita di cattivo gusto di Matteo Renzi che intervenendo in Senato, subito dopo l’informativa del premier Giuseppe Conte sull’emergenza coronavirus, disse che: «La gente di Bergamo e Brescia che non c’è più, se potesse parlare ci direbbe di riaprire». Una frase che fa ancora venire i brividi. Sui social però si parla anche di cose buone, almeno ogni tanto, e in quelle stesse ora in tantissimi parlano dell’ultima puntata di Rebibbia Quarantine la serie realizzata da Zerocalcare durante il primo lockdown.
Intanto, mentre si fa ancora polemica sui “runner” e sul fatto che debbano o meno portare la maschierina correndo, un grosso, grossissimo problema ci passa sotto gli occhi senza che ci accorgiamo quasi mai né della sua esistenza né di farne parte: durante il lockdown ci siamo tutti abituati a consumi enormi di oggetti usa e getta, come guanti e mascherine, che finiscono in troppi casi per strada e che in ogni caso hanno un fortissimo impatto ambientale, oltre che in molti casi anche sanitario. Per parlarne, abbiamo chiesto un contributo alla giornalista Anna Castiglioni.
Il danno ambientale della pandemia
di Anna Castiglioni
È solo una delle conseguenze della pandemia, per molti nemmeno la peggiore: è talmente lontana dalla nostra percezione da non riuscire a immaginarne la portata. Eppure il danno ambientale causato indirettamente dal COVID-19 si farà sentire sul lungo periodo e impatterà in modo irreversibile sull’ecosistema. I dati probabilmente saranno definitivi solo quando la pandemia sarà un lontano ricordo. Per ora possiamo fare riferimento ai primi 8-9 mesi del 2020, che prendono in esame anche il periodo di lockdown e di chiusura di molte attività, tra cui i centri di stoccaggio e riciclaggio.
Il rapporto L’Italia del riciclo, che prende in esame la situazione italiana, è stato pubblicato a dicembre 2020 e non è molto rincuorante. “Tra gli effetti a medio termine dell’epidemia ci sono sicuramente i ritardi, i rallentamenti e i tagli degli investimenti programmati nel settore dei rifiuti”, si legge nell’introduzione. L’indagine prende in esame 50 realtà composte per il 46% da imprese, per il 33% da consorzi di filiera, per l’8% da utility (società di pubblica utilità), per il 3% da associazioni di categoria e per il 10% da altri soggetti (studi di consulenza, enti pubblici e autodemolitori).
Il primo dato che emerge è che solo nei primi mesi del 2020 i rifiuti d’imballaggio sono aumentati di oltre il 7%, con un aumento del 5-6% per i rifiuti d’imballaggio in vetro e in plastica e del 10% per quelli in carta/cartone e in acciaio. Una conseguenza piuttosto logica, se ripensiamo al periodo di chiusura totale: mentre le attività produttive e commerciali erano chiuse, gli e-commerce di tutto il mondo hanno continuato a sfornare ordini, i corrieri a consegnare pacchi e noi ad acquistare in modo compulsivo ogni tipo di articolo, dai beni di prima necessità alla cancelleria.
Nei mesi successivi la situazione è migliorata: la raccolta differenziata ha ripreso il suo corso, con picchi di crescita su due categorie di rifiuti, la carta e i RAEE, i rifiuti elettrici ed elettronici. L’aumento di questi rifiuti nel periodo giugno-agosto è stato addirittura del 20% e non è difficile capire il perché: la didattica a distanza e lo smart working obbligato hanno costretto molti di noi ad adeguare e rinnovare il proprio arsenale tecnologico. E dire che il nostro nemico, prima della pandemia, era unicamente l’obsolescenza programmata.
Da settembre 2020 all’ultimo aggiornamento di questo pezzo (aprile 2021, ndr) non ci sono dati ufficiali che possano darci un quadro generale della situazione, né italiana né mondiale. Possiamo dedurre che il costante ricorso al take away e al delivery in ogni categoria merceologica ci stia sommergendo di rifiuti, ma non abbiamo ancora dati a supporto. Tuttavia, possiamo affermare con discreta sicumera che la situazione non è andata migliorando, almeno non per i rifiuti da imballaggi. Uno studio commissionato da CONAI (Consorzio Nazionale Imballaggi) in collaborazione con l’Istituto Sant’Anna di Pisa mostra uno spaccato dell’attuale situazione, quella dell’aumento dei consumi online e del conseguente overpackaging. Secondo l’indagine il 37% degli intervistati afferma che acquista online più di prima e il 30% afferma di aver ridotto il numero di volte in cui fa la spesa al supermercato. Insomma, sono cambiate le abitudini degli italiani: per timore di contaminazioni prediligono l’acquisto di prodotti confezionati anziché sfusi, “trend che ha conosciuto un incremento molto forte durante la fase acuta della pandemia e che si sta mantenendo”.
Ma il maggiore impatto ambientale è dato soprattutto dai dispositivi di protezione individuali (DPI). In questo caso c’è un duplice problema: quello dello smaltimento corretto e della dispersione nell’ambiente. I DPI sono un presidio chirurgico destinato a crescere per volume in tutto il mondo e non sono riciclabili dai sistemi di riciclaggio tradizionali. La loro fine è inevitabilmente l’inceneritore. Esistono dei tentativi di riciclo delle mascherine chirurgiche da parte di alcune startup e aziende, ma è un processo lungo e logisticamente impegnativo, perché prevede la sanificazione e la suddivisione delle varie parti dei DPI (elastici, mascherine, ferretti). Magari diventerà un processo industriale su larga scala in un futuro prossimo, per ora rimangono virtuosi tentativi isolati.
La dispersione nell’ambiente dei DPI è una diretta conseguenza del loro massiccio impiego: più sono diffuse le mascherine monouso e più ne troveremo sparse per terre e mari. Quello che non tutti sanno è che disperdere DPI nell’ambiente equivale a disperdere bottiglie di plastica, perché la componente principale di questi presidi chirurgici è il polipropilene, un polimero plastico dall’elevata biocompatibilità (quindi sicuro per la salute) ma dannoso per l’ambiente: come tutte le plastiche permane nei mari e nel suolo per centinaia di anni e rilascia nel tempo tonnellate di microplastiche. Associazioni e ong di tutto il mondo hanno lanciato appelli e campagne per sensibilizzare governi e cittadini sul tema: Oceans Asia, Greenpeace, Opération Mer Propre, Legambiente, solo per citarne alcune.
Nonostante gli sforzi dei singoli cittadini e delle associazioni ambientaliste, il problema permane e non sembra essere un’impellenza per i governi, alle prese con pandemia, piani vaccinali e mantenimento dello status quo capitalistico. Il fatto è che l’emergenza climatica, diretta conseguenza dell’inquinamento ambientale, è un macro problema che dovrebbe essere affrontato con urgenza e lungimiranza da tutti, anche e soprattutto in tempi pandemici. Anche quando non sappiamo ancora quali saranno le dirette conseguenze delle nostre azioni oggi. O forse lo sappiamo, e preferiamo guardare dall’altra parte in attesa di svegliarci da un brutto sogno.
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