Addio a “Quota 100”. La reazione di Salvini e le possibili alternative.
Il provvedimento bandiera della Lega non verrà rinnovato dal governo Draghi. Sul tavolo del ministro del Lavoro Orlando ci sono già possibili alternative
Nelle ore in cui il premier Draghi è di nuovo costretto ad alzare la voce con Bruxelles per garantire che l’Italia presenterà il suo PNRR in regola e nei tempi massimi, all’interno della coalizione di governo pare si levi il grido di un nuovo contrasto.
Questa volta si tratta di un tema nuovo ma vecchissimo: le pensioni, e in particolar modo la volontà di far esaurire a scadenza naturale “Quota 100”, la proposta fortemente voluta dalla Lega di Matteo Salvini e diventata legge durante il governo Conte 1.
Il leader del Carroccio ha subito messo in chiaro la sua posizione, definendo “inaccettabile” l’ipotesi di non rinnovare la riforma pensionistica, ma a quanto pare i giochi sono fatti.
Fosse per il segretario della Lega – e per la sua propaganda elettorale continua – il tentativo da farsi sarebbe quello di abbassare l’età pensionabile, portando il Paese a “quota 41”(41 anni di contributi indipendentemente dall’età).
«Dopo un anno di Covid, di morte, di sofferenza e di paura – dice Salvini -, con 500mila posti di lavoro già persi e migliaia di aziende chiuse, con almeno 2 milioni di donne e uomini che rischiano il posto di lavoro non si può certo alzare l’età per andare in pensione. All’Italia serve semmai il contrario, cioè andare verso Quota 41, per garantire quel ricambio generazionale e quelle opportunità di futuro si giovani che altrimenti sarebbero negate».
Ad appoggiare la proposta di Salvini – oltre ai sindacati che da tempo chiedono di pensare al post Quota 100 – c’è poi il sottosegretario all’Economia Claudio Durigon, secondo cui «Occorre puntare a quota 41 e a strumenti che diano ancor più flessibilità in uscita. La pandemia ha cambiato tutti i parametri».
LE ALTERNATIVE
Al momento le alternative sul piatto sono varie, e vanno dalle sole agevolazioni per i lavoratori impegnati in attività usuranti, accompagnate da un’ulteriore proroga di Ape sociale e Opzione donna, fino ai un rafforzamento dei contratti d’espansione o Quota 102.
Per questo motivo, il governo dovrà pensare una vera alternativa alla riforma pensionistica e, stando a indiscrezioni, il punto di partenza del Mef consiste in un ritorno “in toto” alla legge Fornero, lasciando aperti dei percorsi aggiuntivi.
Il primo di questi sarebbe quello che riguarda tutti lavoratori impegnati in attività considerate usuranti, per i quali sono già previsti diversi canali di uscita anticipata che potrebbero essere resi ancora più flessibili e accessibili.
In alternativa potrebbe essere prorogata il cosiddetto Ape sociale, ovvero l’Anticipo pensionistico al quale possono accedere alcune categorie di lavoratori in difficoltà – che abbiano però almeno 63 anni d’età – oltre che alcune categorie di lavoratori in difficoltà, come i disoccupati di lungo corso o i disabili.
Accanto a questa ci sarebbe l’ipotesi di rendere in qualche modo strutturale (e non solo limitata all’ultima legge di bilancio) Opzione donna, ovvero la possibilità di andare in pensione con 58 anni d’età (59 se “autonome”) e 35 di contributi ma con il calcolo interamente contributivo dell’assegno.
Successivamente, al fine di favorire la cosiddetta “staffetta generazionale” il governo sta valutando l’ipotesi di rafforzare i contratti d’espansione. Questi consentono di mandare in pensione fino a 5 anni prima della soglia di vecchiaia (67 anni) i lavoratori anziani con contemporanea assunzione di giovani, e favorirebbe allo stesso tempo anche la possibilità di risollevarsi dalle crisi aziendali.
L’ultima opzione, invece, è quella pensata dai tecnici del governo Conte II: quota 102.
La riforma consentirebbe l’uscita anticipata con almeno 63-64 anni d’età e 39-38 anni di contributi, obbligando però a un sistema di penalità “crescente”, cioè che fa leva sul ricalcolo contributivo per ogni anno d’anticipo che si chiede rispetto alla soglia di vecchiaia identificata (67 anni, come detto). Un’opzione lasciata sui tavoli dei via XX Settembre poi su quelli del ministro del Lavoro Andrea Orlando.
“È un tema che ho chiaro e presente ma non si possono fare venti cose insieme” ha quindi risposto Orlando, consapevole del fatto che, tra propaganda politica e necessità del Paese, questo dossier merita tutta la sua attenzione.