C’è una lucina in fondo al tunnel, ma il tunnel è infinito
La curva della prima ondata arriva all’apice, si iniziano a fare previsioni su quando ne usciremo e su che impatto avrà la quarantena a livello economico, ma anche a livello psicologico.
Questa è la nuova puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se invece vuoi ascoltare questo articolo in formato Podcast, lo trovi subito qui sotto, (ed anche su Spreaker, Spotify e sulle altre piattaforme). Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.
Un anno fa esatto, durante l’ultima settimana di marzo del 2020, seppur fossimo nel pieno della prima ondata, iniziavamo a cercare una lucina in fondo al tunnel. Non sapevamo quanto fosse lungo (in qualche modo ancora oggi non lo sappiamo),ed eravamo ancora completamente ignari che non sarebbe stata né l’unica né la più mortifera, ma sapevamo che quella sarebbe stata la settimana in cui avremmo raggiunto l’apice di quella prima terrificante curva.
Dopo la settimana che l’aveva preceduta, quella durissima a livello mediatico di cui resterà nella storia la sfilata terrificante dei camion militari pieni di bare, una foto che ci mette ancora i brividi al solo pensarci, in quei giorni, tra il 25 marzo e il 31 marzo, arrivammo a sfiorare i mille morti al giorno e toccammo i 10mila morti dall’inizio della pandemia. Eppure iniziavamo a guardare avanti facendo previsioni.
In quei giorni se ne fanno tante, di previsioni. Alcune sono perfino realistiche, ma altre, la maggior parte, sono senza alcun senso. La più realistica, anche se all’epoca non ci credevamo più di tanto, fu probabilmente quella di Moderna, l’azienda americana che per prima aveva iniziato a sperimentare un vaccino contro il coronavirus, che proprio quella settimana annunciò la propria previsione sul futuro del prodotto che stavano sviluppando: sarà pronto entro l’autunno. Hanno avuto ragione, anche se il paradosso, ora lo sappiamo, è che non basta produrre un vaccino, se non sai come distribuirlo.
Anche l’allora presidente degli Stati Uniti Donald Trump si sentiva fiducioso e si lanciava in previsioni. Le sue però erano veramente senza alcuna base scientifica. Affermava che avrebbe riaperto gli Stati Uniti entro Pasqua. Nello stesso momento, l’OMS diceva tutto il contrario, indicando gli Stati Uniti come nuovo epicentro della pandemia. Ora sappiamo bene chi dei due aveva ragione.
Tra tutte le previsioni e gli sguardi al futuro che facevamo in quei giorni, uno di quelli più importanti e decisivi per il futuro di tantissimi di noi fu invece, a posteriori, quella meno calcolato: che effetto avrebbe avuto l’isolamento, il distanziamento sociale e la didattica interrotta e a distanza sulla vita dei bambini e delle loro famiglie?
Nonostante sia uno dei temi più impattanti sulla vita di tutti noi ancora oggi, con le scuole chiuse e il DAD a oltranza, i media difficilmente hanno saputo coprire questo argomento, che è rimasto quasi sempre legato alle emergenze o alle polemiche di giornata. Noi, qua su Fixing News, ci torneremo la settimana prossima. Intanto ti invitiamo a leggere un intervento che abbiamo pubblicato qualche giorno fa su Slow News. L’ha scritto Christian Raimo e crediamo che sia un punto di partenza importante per ragionare veramente sul problema della didattica e dei diritti.
Nel frattempo, come sempre, anche in quei giorni di inizio primavera del 2020, nel mondo, i problemi non si erano certo fermati. E mentre faceva clamore la positività dei vip (è la settimana del principe Carlo, ma soprattutto di Boris Johnson), i ritardi e le inadempienze sui tamponi della Regione Lombardia (sì, la telenovela Fontana era già iniziata ed è grottesco pensare che a distanza di un anno non sia cambiato praticamente nulla) ) e ci si infiamma per le polemiche della settimana (tirava molto l’ipotesi complottistica che il Tg Leonardo avesse parlato del coronavirus già nel 2015 ma non era vero, e impazzava anche la polemica tra Fedez e il Codacons sulle raccolte fondi online per aiutare gli ospedali) le dinamiche che esistevano prima continuano ad esistere: 92 soldati del Ciad vengono uccisi durante un attacco di Boko Haram vicino al confine con la Nigeria e la situazione dei richiedenti asilo peggiora dovunque, tanto che in Portogallo qualcuno ha la buona idea di regolalizzarli per non emarginarli ancora di più durante la pandemia. Un esempio più unico che raro.
Ma c’è un altro ambito in cui le previsioni erano già realistiche: l’economia. Dopo le prime settimane di lockdown apparve chiaro a tutti che il coronavirus non era lo tsunami di cui molti parlavano metaforicamente, ma il mare che si ritraeva. La vera ondata distruttiva sarebbe stata quella della recessione economica che l’avrebbe seguito, e difatti quello è il campo principale su cui i governi di tutto il mondo iniziano a concentrarsi. Prima la salute dei cittadini, ma senza far fallire l’economia mondiale.
Negli Stati Uniti, Repubblicani e Democratici statunitensi trovavano un accordo per le misure di emergenza da 2.000 miliardi di dollari da adottare contro il coronavirus; Conte e altri otto leader europei scrivevano una lettera al Consiglio Europeo per chiedere l’emissione dei cosiddetti “eurobond”; il Consiglio rispondeva raggiungendo il primo accordo su come agire; il governo italiano stanziava nuovi fondi e pubblicava le prime FAQ sulle misure economiche e fiscali speciali per fronteggiare l’emergenza e infine Mario Draghi, ancora molto lontano dall’essere nominato primo ministro italiano, affermava in un pezzo pubblicato dal Financial Times che «per uscire dalla crisi dovremo spendere tutto il possibile».
Nel frattempo, diversi governi europei compreso quello italiano invocavano l’intervento del famigerato quanto fantomatico MES, mentre altri, tra cui Germania, Austria, Paesi Bassi e Finlandia, non ci stavano. E di nuovo, come le mode che tornano ogni tanto, si tornava a sentir parlare dovunque del MES.
Che fine ha fatto il MES?
di Gabriele Cruciata
L’abbiamo visto tante volte qui su Fixing News: nel panorama italiano ci sono alcuni temi chiave che ogni volta che vengono citati hanno la capacità di alimentare cori da stadio e creare fazioni opposte in aperta lite tra loro. Funzionano come parole magiche: basta citarli per creare spaccature. Negli ultimi anni uno dei temi più divisivi del nostro dibattito politico è stato il MES, una di quelle cose di cui tutti hanno parlato, su cui tutti hanno espresso una qualche opinione e che ogni volta che viene citata riapre dibattiti che assomigliano ai fuochi di paglia secca, che si incendiano subito ma poi muoiono dopo poco.
L’ultimo ad averlo nominato in ordine di tempo è Mario Draghi, che nella sua prima conferenza stampa ha spiegato che il MES non è una priorità ma che si potrebbe valutare qualora dovesse includere un piano per la Sanità. La cautela di Draghi è strategica, anche da un punto di vista comunicativo. Del resto se il governo Conte bis è caduto, una certa spiegazione sta proprio nel MES, che durante la prima ondata epidemica tornò in grande spolvero a popolare le prime pagine dei giornali.
Il MES, l’infodemia, il rumore.
Succedeva meno di sei mesi fa, ma è un ricordo così lontano che probabilmente nessuno ne ha più memoria. O almeno non c’è traccia di alcuna memoria collettiva, come ormai siamo abituati che succeda da quando viviamo immersi nell’infodemia senza freni che caratterizza la nostra epoca.
Ma a proposito di infodemia, la storia del MES ci ricorda una cosa fondamentale e decisamente segnante: i parlamenti si spaccano e i governi cadono per polemiche o divisioni che dopo pochi mesi non ricorda più nessuno. E il motivo per cui questo accade è che le polemiche e le divisioni – che nascono chissà perché e chissà dove e poi si propagano chissà come – sono sostanzialmente vuote. Non perché non abbiano senso in sé, ma perché i temi intorno a cui di volta in volta si creano spaccature e polemiche sono affrontati in modo così superficiale che poi finiscono col diventare degli slogan svuotati di significato.
Tornando al MES, nel dicembre del 2019 uno studio condotto da Demopolis ha dimostrato che i due terzi degli elettori italiani dichiarava di non aver capito cosa fosse. E si badi bene: il rimanente 33% non era messo meglio, visto che il 25% diceva di sapere cosa fosse e poi sbagliava risposta. Insomma, un disastro. Un disastro politico, elettorale, culturale e tutto sommato anche mediatico. Una vera disfatta di tutto il nostro sistema.
Ma cos’è davvero questo MES?
Quello che viene spesso omesso dalla stampa mainstream è il pregresso. Cioè le basi, il contesto. Nel caso specifico, ci si dimentica spesso di raccontare che il MES – che tra l’altro è l’italianizzazione della sigla inglese ESM, European Stability Mechanism – è un’organizzazione intergovernativa alla quale prendono parte tutti gli stati che adottano l’euro. Ma, contrariamente a quanto si è fatto intendere da molti fronti, non è un’istituzione europea.
Il lavoro che fa, almeno in apparenza, è quello di acquistare e vendere titoli di Stato, che volendo semplificare un po’ sono le azioni dello Stato. La verità però è che l’attività di compravendita di titoli è in realtà funzionale a proteggere economicamente gli Stati che ne fanno parte. Ad esempio il MES può – attraverso la sua attività di compravendita di titoli – aiutare un paese ad evitare il fallimento o ad uscire da una crisi economica.
Insomma, è una specie di assicurazione alla quale gli stati partecipano mettendo una quota di denaro proporzionale al proprio peso economico e da cui ottengono un beneficio qualora le cose si mettessero male. Un’assicurazione che fu messa in piedi dopo la crisi del 2008, quando ci si rese conto che un fondo simile era necessario per il futuro.
A che punto è la riforma del MES?
L’ultima delle grandi polemiche che hanno infervorato la politica e la stampa italiana è stata l’intenzione di Giuseppe Conte, all’epoca Presidente del Consiglio, di esprimersi a favore di una riforma del MES della quale in realtà si parlava fin dal 2018.
La riforma si concentrava su due punti: da un lato l’istituzione di un fondo finanziato dalle banche europee e pensato per aiutare le stesse banche qualora si fossero trovate in difficoltà; dall’altro l’inserimento dell’obbligo per un paese che chiede aiuto al MES di emettere particolari titoli di stato che consentono ai creditori una riduzione del debito accumulato tramite una procedura di voto semplificata.
In Europa si dibatte da molto tempo di questa riforma, che da molti è considerata l’unica condizione a cui avrebbe senso mantenere l’esistenza del MES. Peraltro la sensazione che il fondo così com’è al momento non abbia molto senso è stata rafforzata durante l’ultimo anno, dal momento che sostanzialmente non ha avuto alcun effetto lenitivo sulla crisi sanitaria ed economica che ha vissuto tutta l’eurozona a causa del Covid-19.
Attualmente la riforma è in fase di ratifica. Secondo questa sua nuova, eventuale versione, il Meccanismo aiuterebbe la gestione di crisi bancarie e acquisirebbe il compito di stimare l’effettiva solvibilità dei Paesi membri tramite procedure semplificate per la rinegoziazione del debito pubblico. Il problema è che le condizioni di accesso al fondo sono troppo onerose, e quindi è difficile immaginare degli scenari in cui esso venga effettivamente sfruttato senza una riforma dello stesso meccanismo di risoluzione.
MES e beghe personali
Insomma, la riforma del MES è una questione importante, complessa e spinosa, e soprattutto ancora irrisolta.
Solo che in Italia il MES è stato utilizzato come mezzo per riaccendere vecchi dissapori politici e attriti tra correnti di partito. Tanto per dirne una, il 2 dicembre del 2020 sedici senatori e cinquantadue deputati del Movimento Cinque Stelle mandarono una lettera a Vito Crimi (che all’epoca era il capo politico del M5S) per opporsi alla decisione di Conte di votare a favore della riforma. Nella lettera quindi si annunciava un voto contrario a quello auspicato dal Governo, del quale ovviamente i grillini costituivano la maggioranza.
Ebbene, 16 dei firmatari erano quelli in precedenza definiti “ribelli” o “frondisti” dalla stampa. Tanto che tra di loro c’era anche Nicola Morra, considerato il ministro mancato per eccellenza del Conte bis.
Ovviamente poi non sono mancate le dichiarazioni più aggressive di chi era all’opposizione. Ad esempio Giorgia Meloni disse che il governo stava mettendo all’asta l’Italia. Il suo riferimento – supponiamo – era alla richiesta di accedere agli aiuti del MES. Cosa che però non è stata dibattuta né in quel momento né successivamente: semplicemente, si stava parlando della riforma del MES, cioè un’altra cosa che non c’entrava niente.
Anche Matteo Salvini si è opposto pubblicamente e ripetutamente contro il MES in generale e anche contro una sua eventuale riforma. Il leader della Lega ha detto più volte che si tratta di “una trappola”, un “trattato infernale che mette a rischio i risparmi ed il futuro degli italiani”, che “va fermato” e che se l’opposizione al Conte bis avesse firmato a favore della riforma avrebbe finito di collaborare con la Lega. Tutto molto bello e coerente, se solo non fosse che Salvini era ministro quando il primo governo Conte iniziò a ragionare sulla riforma del MES.
Peraltro in quell’occasione Salvini sostenne che Conte – che presiedeva il governo di cui Salvini stesso faceva parte – aveva firmato nottetempo accordi segreti a riguardo, mentre la ratifica era ancora lontana e, comunque, un’eventuale firma dell’accordo sarebbe spettata non a Conte ma ai ministri delle Finanze e sarebbe entrata in vigore solo dopo l’iter di ratifica parlamentare e la promulgazione del presidente della Repubblica. Insomma, niente accordi segreti.
È interessante notare che tutti i punti sollevati in realtà sfiorano soltanto il merito (cioè l’opinione sulla riforma del MES) e sono spesso invece motivati da diatribe politiche preesistenti.
A questo proposito il caso più eclatante è forse quello di Matteo Renzi, che a fine 2020 attaccò aggressivamente il governo Conte bis affermando che era necessario valutare urgentemente l’ipotesi di usufruire dei fondi del MES. Nella sua prima conferenza stampa Mario Draghi ha sostanzialmente dimostrato di avere la stessa posizione attendista del suo predecessore, eppure non c’è stata alcuna levata di scudi né alcun capello strappato.
Il MES, l’UE e i rettiliani.
Il problema vero è che la vittima di tutte queste finte risse politiche è sempre la chiarezza verso i cittadini, che infatti non hanno capito né cosa sia il MES né cosa comporti una sua eventuale riforma. E quel che è ancora più grave è che la mancata comprensione da parte dei cittadini non è solo la conseguenza di litigi personali che fanno solo rumore e inquinano il dibattito pubblico, ma spesso sono un elemento da cavalcare alla ricerca di consensi.
Le incomprensioni e l’ignoranza sul MES hanno infatti alimentato le incomprensioni e l’ignoranza dei meccanismi europei in generale, facendo sì che l’Unione Europea sia sempre più percepita in modo distantissimo. Come una specie di cupola che prende decisioni vincolanti seguendo iter fumosi e sistemi di rintracciabilità della responsabilità troppo nebulosi e opachi. Non è un caso che tutto ciò che ha un respiro europeo – l’Unione, certo, ma anche il MES – sia tra gli argomenti centrali dei complottisti, certi che i leader dell’UE siano rettiliani pagati dai marziani o chissà cos’altro.
Che poi sarebbe anche paradossale e divertente tutto sommato, se solo di mezzo non ci andasse il futuro del Paese.