Come il Wrestling, ma sempre peggio
Cosa successe lo scorso anno? Sembra passato un secolo, ma andava in scena il confronto fra Matteo Renzi e Matteo Salvini a Porta a Porta, e non solo.
Questa è la quarta puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se invece vuoi ascoltare questo articolo in formato Podcast, lo trovi al fondo dell’articolo (ed anche su Spreaker, Spotify e sulle altre piattaforme). Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.
Tra il 15 e il 21 ottobre del 2019 nel tritacarne delle news ci finirono un sacco di cose, quasi tutte rese ugualmente poltiglia indefinita nei nostri ricordi, a meno di non avere memorie prodigiose per l’aneddotica.
In quel bolo si mischiarono, come sempre, singoli fatti appartenenti a dinamiche che sarebbe stato importante non dimenticare tanto in fretta, ma anche discussioni e polemiche che potevamo evitarci tranquillamente. Tra queste ultime, giusto per citarne giusto un paio, ci fu quella scatenata dalla scritta su una bustina di zucchero in val di Fassa, ma anche quella sempreverde su a chi sta dietro Soros, (lanciata, ehm, da una agenzia di stampa).
Il flusso più importante delle conversazioni di quella settimana, però, quantomeno dell’inizio, fu un evento che scommettiamo nessuno di noi si ricorda più, ma che all’epoca ci occupò un sacco di tempo, e di spazio sui quotidiani.
I furono due Mattèi
Già, quella settimana iniziò col botto. Ma un botto strano, uno di quelli tutti mediatici che visti a un anno di distanza ci fanno provare quella strana vertigine che ci dà ripensare a qualcosa che mentre accadeva ci dava l’impressione di essere importantissima, ma che in realtà a posteriori ci lascia spiazzati.
La sera del 15 ottobre del 2019, infatti, nello studio di Porta a Porta, furono in scena due personaggi che all’epoca erano molto ingombranti nello scenario mediatico: i due Mattèi, Salvini e Renzi. Non ti sembra vero, eh? Ti sembra molto più lontano nel tempo, non è così? Ma soprattutto, nemmeno tu ti ricordi di cosa diavolo erano stati chiamati a discutere, giusto? Se ti interessa, qui c’è il video di quel dibattito.
La cosa che, alla luce di quel che è successo, sembra più surreale di quel dibattito è il fatto che i due erano già in una fase discendente della loro popolarità: uno fuoriuscito dal Pd e con percentuali irrilevanti, ma tenuto a galla dai voti che servono al governo. L’altro auto-esiliatosi dal governo precedente nel tentativo di un colpo di mano che, a ripensarci oggi, sembra proprio una delle più goffe mosse politiche della storia di questo paese.
Se invece ami il retrò, di scontri televisivi in cui si è tentato di portare il modello del dibattito all’americana anche da queste parti ce ne sono un po’ da ricordare. Se guardi quello del 1994 tra Occhetto e Berlusconi (modera Enrico Mentana) ti sembra di fare un viaggio nel tempo, in un’era che non c’è più, per tempi, ritmi, argomentazioni.
E poi ci furono gli scontri Prodi-Berlusconi: il primo del ‘96, poi quello del 2006 (in più round) con il cronometro e il celeberrimo proclama dell’allora candidato premier della Casa delle Libertà «aboliremo l’ICI».
Come godersi l’essenza dello scontro senza farsi ingannare dalla sceneggiatura
Vince McMahon, negli anni ‘80, trasformò radicalmente il Wrestling.
CEO della World Wrestling Entertainment, MacMahon fu capace, fra le altre cose di organizzare una serie di eventi epocale: nel 1987 più di 90mila persone assistettero a WrestleMania III dal vivo. Il match più importante, quell’anno, era Hulk Hogan contro André The Giant: i due si contendevano il titolo di campioni del mondo.
Ma campioni del mondo di cosa, esattamente?
McMahon aveva attribuito al Wrestling l’etichetta di sport-spettacolo.
Aveva cioè ammesso pubblicamente che si trattasse di finzione, rivendicandolo. Aveva cioè spazzato via…
«quella sospensione dell’incredulità in passato rincorsa dalle federazioni di wrestling per nascondere il fatto che tutta la violenza è simulata. Al contrario, McMahon descrive una stagione di wrestling professionistico come un romanzo a puntate che culmina»(*)
nell’evento finale.
Che cosa c’entra con la politica e con il giornalismo? Be’, siccome raccontare storie (e ascoltarle) è parte integrante della natura umana, il punto è che tutte le volte che sui giornali si rappresenta uno scontro – a maggior ragione quando lo si esalta nella forma del dibattito – siamo molto più vicini al wrestling che non alla reale dialettica politica.
Facci caso.
Si parla sempre per slogan e frasi fatte. Il format è, di fatto, quello di un talent show. Anche quando il giornalista di turno mette “in difficoltà” il candidato, c’è il tempo che ad un certo punto scade e si passa oltre. Si decreta chi ha vinto (decreto estremamente soggettivo, più di una vittoria per schienamento sul ring della WWE) e chi ha perso, come se questo avesse un reale effetto sulla vita politica di un paese e sul risultato elettorale. E si dà per scontato che sia così, anche se non c’è nessuna prova che un dibattito televisivo sposto punti percentuali.
Ecco: il modo in cui i giornali italiani trattano la politica, fra un retroscena che è più gossip che altro, e il dichiarazionismo spinto, trasforma l’agone in un dibattito permanente con storyline sempre più deboli (vuoi mettere Berlusconi vs Prodi rispetto a Renzi vs Salvini?) e sempre più cloni della narrazione precedente.
Grande assente? L’interesse di lungo periodo per la politica del paese.
Vince McMahon, CEO della World Wrestling Entertainment
Mattarella vs Trump
Quello tra Salvini e Renzi non fu l’unico “ring” della settimana e di sicuro fu il meno “politico”. Anche se ormai non ce lo ricordiamo più, il 17 ottobre del 2019 il presidente Mattarella, in visita negli Stati Uniti, incontrò alla Casa Bianca Donald Trump. Quel che restò per qualche tempo come strascico sui social fu soprattutto l’espressione sconvolta della traduttrice italiana di fronte alle gaffes di Trump, il surreale discorso del presidente USA (qui trovi tradotta una parte, poi diventa troppo surreale anche per l’autore della traduzione), il presunto scivolone di Trump sul cognome di Mattarella e un altro presunto sfondone storico-politico.
Le polemiche dispersero l’attenzione dell’opinione pubblica sulle due cose centrali di cui si parlò durante quell’incontro: l’invasione turca nel nord della Siria e i dazi statunitensi su alcuni prodotti europei. Se di solito ci concentriamo sul dito che indica la luna, insomma, in questo caso non siamo andati molto oltre lo sporco che c’era sotto l’unghia del dito.
La chiamavamo “Emergenza maltempo”
Tra il pomeriggio e la serata di 21 ottobre del 2019, tra la Liguria e il Piemonte, si scatenò una perturbazione imponente che in poche ore riversò su alcuni comuni circa mezzo metro d’acqua. Qualche cifra? 540mm a Campo Ligure, 486mm a Gavi (AL), 430mm a Rossiglione (GE), 419mm a Casalecchio Boiro (AL). Sui giornali dell’indomani, ancora una volta, si parlò di Emergenza maltempo, un termine a cui ci siamo abituati sempre di più negli ultimi anni, ma che è diventato limitante – anzi, proprio sbagliato – sia a livello meteorologico che a livello giornalistico.
Un’emergenza è qualcosa di straordinario che accade improvvisamente, spesso senza che ce lo aspettassimo, e in linea teorica a un certo punto finisce. Se l’emergenza invece ritorna ogni volta che piove più del normale, allora non siamo più di fronte a una emergenza, ma a un problema ricorrente e sistemico. Dal punto di vista mediatico cosa cambia? Che invece di parlare e urlarsi addosso sul tempo che fa, forse dovremmo iniziare a pretendere che si affrontasse il problema da un altro punto di vista e smettere di raccontare i puntini se poi non si ha il coraggio di unirli. Iniziamo a smettere di chiamarla una emergenza maltempo, perché è un problema strutturale che ha cause antropiche. In parte c’entra la crisi climatica, in parte la scarsa attenzione per il territorio. E infatti pochi giorni fa, all’inizio di questo ottobre, è ricapitato.
E la Catalogna?
In quei giorni di metà ottobre, in seguito alla condanna dei leader indipendentisti catalani ad un secolo di carcere complessivo, in Catalogna e in particolare a Barcellona si “scatenò l’inferno”, per dirla in termini giornalistici. Gli scontri andarono avanti per giorni e per notti caratterizzate da inaudita violenza. Ci fecero impressione? Sì, tantissimo. Ma ne parlammo giusto il tempo che qualcos’altro arrivasse a far ripartire la giostra. Tanto e vero che oggi, a un anno e qualche mese di distanza dalle nuove elezioni, della indipendenza catalana non sembra importare poi molto a qualcuno.
Qual è la situazione oggi, a 3 anni dalla dichiarazione di indipendenza? A fine settembre, per la seconda volta di fila (la prima volta riguardò Puigdemont), il leader della Generalitat di Barcellona è stato destituito, rendendo sempre più complicata la situazione. Intanto la regione è una delle più colpite d’Europa dal coronavirus e il sogno indipendentista non si capisce se abbia un futuro o se invece no. Forse non si capisce nemmeno se abbia un senso.
(*) da L’istinto di narrare di Jonathan Gottschall