Il Rinascimento saudita esiste, ma non tiene conto dei diritti degli uomini
Matteo Renzi ha ragione: l’Arabia Saudita potrebbe essere il teatro di un nuovo Rinascimento. Il problema è il “come”.
“Io penso che l’Arabia Saudita possa davvero essere il luogo di un nuovo Rinascimento per il futuro”.
Matteo Renzi ha pronunciato queste parole lo scorso 28 gennaio, introducendo la sua intervista a Mohammed bin Salman, il principe ereditario d’Arabia Saudita, nonché suo leader di fatto.
La loro conversazione rientrava nel programma del Future Investment Initiative, il summit internazionale ideato nel 2017 dallo stesso Salman, al fine di attrarre investimenti stranieri nel Golfo.
Meno di 48 ore prima, Giuseppe Conte, l’ormai ex presidente del Consiglio italiano, presentava le sue dimissioni al Quirinale, formalizzando così la crisi di governo innescata dallo stesso Renzi.
Il rapporto tra il leader di Italia Viva e l’Arabia Saudita va avanti ormai da alcuni anni. L’ex premier vi si reca regolarmente per condurre conferenze e incontri, e da circa un anno fa parte del board del FII Institute.
Appena qualche ora dopo la conversazione, in Italia, com’era prevedibile, la polemica non è tardata ad arrivare.
La maggior parte degli opinionisti nostrani si è schierata contro il senatore di Rignano per aver “fatto comunella” con il leader di uno stato in cui non vengono rispettati i diritti fondamentali degli uomini, non esiste libertà di espressione e dove i dissidenti politici rischiano di pagare la loro azione con la morte (come successo al giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi).
È bene precisare, poi, che Renzi era lì in qualità di ex premier (come lui stesso ammette) anche se attualmente è un senatore della Repubblica. Come riporta un articolo de IlFattoQuotidiano.it, la cosa non è espressamente vietata dal codice di condotta del Senato, che presenta un buco proprio in merito alla regolamentazione delle attività extraparlamentari dei senatori (ma non dei deputati). Com’è facile immaginare, però, la sua presenza è stata da più parti etichettata come sconveniente (quantomeno), anche al di là del contenuto delle sue parole.
Eppure, in pochi si sono soffermati a pensare che il Senatore Renzi potrebbe avere ragione: l’Arabia Saudita potrebbe davvero rivelarsi il luogo di un Rinascimento arabo nei prossimi anni. Il problema è come.
NEOM, LA CITTA’ DEL FUTURO IN ARABIA SAUDITA
Come racconta il New York Times, le mire di grandezza del sovrano saudita hanno un nome e un luogo geografico preciso in cui svilupparsi.
La capacità di immaginazione di Salman ha partorito Neom, una metropoli futuristica destinata a ridefinire concetto di “nuovo mondo (NYT)”, arabo e non solo.
Nasce nell’ambito del Saudi Arabia Vision 2030, il piano di sviluppo socio-economico approvato dal Consiglio dei Ministri del Regno, e se, almeno per ora, esiste solamente sulla carta (e sui social), i suoi progetti sono più che concreti.
Stando alle descrizioni, Neom sarà 33 volte più estesa di New York City, ricoprendo un’area di circa 26.500 chilometri quadrati nel nord-ovest dell’Arabia Saudita, nella provincia di Tabuk, tra il Mar Rosso e il Golfo di Aqaba.
Sarà una città dall’architettura occidentale e post moderna, anche se in territorio saudita, a emissioni zero, in cui nessuno spostamento durerà più di 20 minuti. Grazie ai suoi treni ad altissima velocità non vi saranno pendolari, i pasti saranno serviti da cameriere robotiche. La costruzione manterrà incontaminato il 95% della natura entro i suoi confini.
Prevedrà una desalinizzazione delle acque, e funzionerà solamente grazie all’energia alternativa. Vi sarà “la semina delle nuvole” (NYT) che porterà la pioggia nel deserto, consentendo così ai contadini di coltivare anche la terra più arida.
Stando a un articolo riportato dal Wall Street Journal, Neom porterebbe con sé “un nuovo modo di vivere, dalla nascita alla morte, basato su mutazioni genetiche per aumentare la forza e il QI dell’uomo“.
Il tutto con un costo stimato pari a 500 miliardi di dollari.
Se la descrizione vi sembra degna di un romanzo Aldous Huxley – o di una puntata di Black Mirror – allora Salman potrebbe essere riuscito nel suo intento.
I DIRITTI DEGLI UOMINI
Proseguendo la sua intervista, Matteo Renzi si è detto “invidioso del costo del lavoro” in Arabia Saudita, facendo così un paragone non diretto con quello italiano.
Questa battuta, probabilmente più infelice della prima, è stata da più parti reputata offensiva nei confronti delle condizioni di vita dei lavoratori nello stato di Salman e della pressoché totale assenza di diritti per gli stessi.
Secondo il report 2020 di Human Rights Watch, il 76% dei lavoratori del settore privato in Arabia Saudita è di origine straniera, e la loro manodopera è essenziale per la sopravvivenza del paese. I lavoratori immigrati sono circa 10 milioni, fanno i lavori più umili (perché i sauditi lavorano principalmente negli uffici) e, potenzialmente, saranno loro a costruire Neom.
Sono obbligati a stare a un rapporto di lavoro denominato “Kafala”, la cui traduzione letterale (evidentemente fuorviante) è “garantire” o “prendersi cura di”. È un sistema che stabilisce degli obblighi nel trattamento e nella protezione degli “ospiti” stranieri da parte degli ospitanti, creando di fatto una dipendenza tra lavoratore e datore che va ben oltre il rapporto lavorativo.
La Kafala è tipica di alcuni paesi del golfo (Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, e anche negli stati arabi di Giordania e Libano) e funziona come una specie di sponsorizzazione. Ogni lavoratore immigrato deve legarsi a un’agenzia di lavoro, un’impresa o un singolo cittadino che agirà per lui come “Kafeel”, privandolo nei fatti dei suoi diritti naturali.
Secondo la Kafala, lo status di immigrazione di un lavoratore (migrante) è legalmente governato dal singolo datore o sponsor (il “kafeel”, appunto), per tutta la durata del suo contratto. Il migrante viene privato del suo passaporto e non può entrare o uscire dal paese in autonomia senza aver prima ottenuto un esplicito permesso scritto dal protettore.
Quando questo contratto viene meno, i lavoratori impossibilitati a spostarsi dalla nazione diventano irregolari, e finiscono per vivere in condizioni indignitose in determinate zone delle città.
Quello della Kafala è un sistema che nasce negli anni ’50 quando diversi paesi del Medio Oriente iniziarono ad assumere lavoratori stranieri per accelerare il proprio sviluppo in seguito alla scoperta del petrolio.
Nel 2017, 49 immigrati tentarono di improvvisare sciopero per il mancato pagamento degli stipendi, ottenendo in cambio 300 frustate e 4 mesi di carcere
Lo scorso novembre, però, in Arabia Saudita c’è stato un allentamento di questo sistema.
Da qualche tempo, ai lavoratori migranti è consentito lasciare il paese senza chiedere il permesso del datore di lavoro. Questo allentamento è legato al fatto che, troppo spesso, i lavoratori migranti che sceglievano di fuggire venivano arrestati e deportati a tempo indeterminato, finendo per costituire uno scandalo per il paese che sta cercando di dare di sé un’immagine progressista.
IL GENDER GAP
Com’è facile immaginare, poi, in Arabia Saudita c’è un problema di gender gap, valido non solo in ambito lavorativo, e che non può essere associato al concetto di Rinascimento.
Il Global Gender Gap Report del 2019 posizionava l’Arabia Saudita al 146esimposto per parità di diritti tra uomo e donna, seguita solamente da una manciata di paesi irregimentati.
Per recuperare questo gap, evidentemente, non è bastato consentire l’accesso allo stadio o la guida di un’automobile alle donne.
Al contrario, una donna guadagna il 54% in meno di un uomo che occupa la sua stessa posizione (secondo le stime dell’European Institute For Gender Gap, in Italia siamo al 16% in meno). Va peggio, poi, alle donne di servizio, che nel momento in cui vengono assunte diventano proprietà dei capi di famiglia delle case dove vanno a lavorare, con tutto quello che ne consegue.
E per venire all’attualità, durante la pandemia, in Arabia Saudita è stata introdotta una nuova regolamentazione che consente agli imprenditori di tagliare gli stipendi dei propri dipendenti fino al 40% e di cambiare senza negoziazione i loro contratti.