La settimana più lunga
Messaggi alla nazione, dirette Facebook, bollettini ogni sera: la guerra esiste se la racconti.
La seconda settimana di marzo dell’anno scorso fu la settimana più lunga di una serie di settimane lunghissime che ci stavamo apprestando ad affrontare. Uno dopo l’altro decine di eventi internazionali sia in Italia che in tutto il mondo vennero annullati a causa della epidemia di coronavirus, che ormai aveva preso chiaramente la forma di una pandemia globale: Google cancellò I/O, il suo più importante evento annuale, il Vinitaly venne rinviato a giugno, così come la partita dell’Italia di rugby contro l’Inghilterra per il Sei Nazioni, viene annullata la Milano-Sanremo e altre gare ciclistiche italiane, così come le finali della Coppa del Mondo di sci a Cortina e addirittura il referendum sul taglio del numero dei parlamentari.
Nel frattempo, soprattutto negli Stati Uniti, si assistette ad un vero e proprio boom di predicatori online che mettono in relazione il COVID con un potenziale “castigo divino” e una dopo l’altra partirono diverse catene di sant’Antonio che intasano anche Whatsapp di messaggi farlocchi sul Covid. Faceva ridere? A molti sì, ma in realtà era, soprattutto la seconda, ovvero la disinformazione attraverso i canali di messaggistica istantanea, una problematica da prendere molto sul serio. Intanto se c’era una cosa su cui ci accapigliavamo era il gel idroalcolico, preso d’assalto ovunque, terminato nei supermercati e nelle farmacie di mezza Europa, tanto che in Francia il governo decide di fissarne il prezzo massimo con un decreto legge. Erano i giorni delle file fuori dai supermercati, dei “saccheggi” di lievito, farina e generi di prima necessità.
Intanto, sempre sul fronte delle discussioni sostanzialmente futili, quella era la settimana delle polemiche su chi spinge per il “non si ferma” — vi ricordate dei video di Milano non si ferma e Bergamo non si ferma, vero? — che travolgono anche il, fino a pochi giorni fa segretario del PD Zingaretti, che una settimana dopo aver promosso un aperitivo a Milano è costretto a dichiarare la sua positività al virus. Ah, ed era anche il momento in cui ci si sbizzarriva con le teorie sul fatto che il caldo avrebbe sconfitto il virus, teorie che giravano molto sui social e su Whatsapp, ma erano tutte illazioni. Ci fu in quei giorni anche l’ultima tappa di una finta emergenza che andava avanti da anni, quella dei seggiolini anti abbandono per i bambini in macchina, per la cui mancanza, dal 6 marzo, si poteva prendere una multa. Anche questa, nel suo piccolo, è una storia che ci racconta qualcosa di importante sulle emergenze, su come si creano e su cosa comportano. Su Slow News ce n’eravamo occupati nella serie Emergenza! di Alberto Puliafito.
Ma erano anche i giorni in cui si annunciava la chiusura delle scuole e delle università, e qualcuno avrà anche pensato un “Che bello, siamo in vacanza”, ma era soltanto l’inizio. E chi se lo aspettava all’epoca che, passato un anno, saremmo stati di nuovo allo stesso identico punto, con le scuole chiuse? Intanto il Governo vara delle misure per far fronte all’emergenza le banche centrali europee iniziano ad annunciare misure straordinarie per combattere gli effetti della pandemia sull’economia: in Europa la situazione è ancora un po’ complicata e i lockdown non sono ancora iniziati in molti paesi, ma già si intuisce che sarà tosta.
Dall’estero intanto arrivavano notizie che fino a qualche tempo prima ci avrebbero fatto discutere e indignare: in Russia, Putin, mentre cercava di stare al potere fino al 2036, vorrebbe che la Costituzione russa vietasse i matrimoni gay. Negli Stati Uniti, Bloomberg dopo essere entrato in campagna elettorale a suon di milioni, uscì subito dalla corsa per le primarie dei Democratici e Kamala Harris, ora vicepresidente, diede il suo appoggio a Biden. Intanto l’esercito statunitense effettua un bombardamento contro i talebani in Afghanistan, il primo dalla firma dell’accordo che dovrebbe prevedere il completo ritiro delle truppe, mentre Russia e Turchia si accordano per una tregua nella provincia di Idlib, in Siria e circola la notizia che dice che l’Iran avrebbe accumulato una quantità sufficiente di uranio per produrre un’arma nucleare.
Anche le vicende legate al movimento metoo andavano avanti — non si sono mai fermate, anche se non ci abbiamo quasi più fatto caso — e quella settimana ci fu, forse questo te lo ricordi, la vicenda dei dipendenti di Hachette che protestarono contro la pubblicazione da parte della casa editrice del libro di Woody Allen. Proteste talmente forti che alla fine il libro no fu pubblicato (negli Stati Uniti, eh. In Italia è uscito eccome).
Quella settimana segnò anche l’inizio ufficiale di un periodo molto particolare a livello di comunicazione: quando la normalità diventa emergenza ed è tutta una breaking news, serve trovare il modo di fare la breaking news della breaking news. Ed ecco dunque il momento dei comunicati, dei messaggi — quello di Mattarella in primis —, delle dirette FB alla nazione di Conte, ma soprattutto dei bollettini serali per contare i morti, i contagiati, i guariti.
Il frullatore delle notizie che accelera sempre di più e noi che ci ritroviamo incollati ad ogni medium, internet, radio, televisione, giornali, assetati di ultime notizie anche se di vere ultime notizie non ce ne sono più, anche se siamo di fronte a un unico e interminabile tappeto di informazioni dentro cui ci perdiamo, terrorizzati, ancor peggio di prima.
L’appuntamento fisso con la paura crea la paura
A partire dalla fine di febbraio, ogni giorno alle 18, la Protezione Civile Italiana cominciò a diffondere il bollettino quotidiano del Covid-19, indicando di giorno in giorno il numero dei contagiati, dei morti e dei guariti. In pochi giorni, quell’appuntamento divenne un punto di riferimento per tutti gli italiani, complici i media, ovviamente. I telegiornali ci facevano servizi in diretta, i quotidiani producevano contenuti per i loro siti, si titolava, si rilanciava sui social, quei numeri — spesso parziali, disomogenei e con poca rilevanza se presi da soli — venivano commentati dovunque.
I contenuti online riferiti a quei bollettini raggiunsero e si stabilizzarono su numeri enormi. Ogni testata ne produceva il proprio, ogni giorno, moltiplicando gli stessi numeri senza aggiungere alcun valore, ma soprattutto fomentando l’attesa stessa di quei numeri, con tutte le emozioni che essa si portava dietro: l’ansia, la curiosità morbosa, la paura, persino il terrore quando capitava una curva particolarmente in impennata.
Capire il perché l’informazione italiana si scatenò a trattare quei momenti ogni volta come delle breaking news, se segui questa rubrica da un po’ ti sarà tutto sommato semplice: perché quei dati, seppur parziali e non univocamente significativi, arrivarono ad essere — come d’altronde sono ancora oggi, dopo un anno — un magnete per le emozioni del pubblico, ovvero l’innesco di tutti quei comportamenti che servono al giornalismo basato sulla pubblicità per fare profitti. Moltiplicano i click, i refresh di pagina, le visualizzazioni, che sono tutt’ora il metro che misura gli introiti pubblicitari.
Ma intanto che questi contenuti si diffondevano, portandosi con sé la paura, iniziò a vedersi un effetto secondario decisamente importante: paradossalmente i siti dei quotidiani italiani registrarono grazie a quei contenuti numeri da capogiro, vennero fuori statistiche degli analytics (lo strumento che si usa comunemente per visualizzare il traffico sui siti internet) che non avevano mai visto prima, impennate di traffico spaventose, eppure gli introiti non seguirono le stesse curve, anzi. Per la prima volta nella storia della pubblicità online, il mercato si riduceva e le cifre di affari diminuivano.
Secondo i dati pubblicati in quei giorni — qui ne trovi un esempio — tutte le metriche che misuravano il comportamento degli utenti nei confronti dei media erano date in forte aumento. Eppure, come abbiamo detto, a quelle impennate non corrisposero impennate dal punto di vista degli introiti. Un mistero? Non proprio.
Quello che successe fu una sorta di malattia autoimmune dell’informazione a base pubblicitaria, il circuito consolidato della creazione di aspettative pompando nel pubblico le emozioni primarie e divisive — una pandemia mondiale da questo punto di vista è il top di gamma del primo campo, quello delle emozioni primarie — andò in cortocircuito. Più aumentava il traffico sulle pagine che parlavano del coronavirus, meno gli investitori volevano comparirci per non abbinare il proprio marchio alla catastrofe. Senza contare poi un altro fattore: i più grandi investitori pubblicitari dei media si trovavano ad essere anche le prime vittime della pandemia. Il settore automotive e quello turistico, in primis, con il lockdown a impedire spostamenti e viaggi, si trovavano a non avere nulla da sponsorizzare.
Sui siti specializzati in analisi del mercato pubblicitario la cosa fu ovviamente subito notata, e nelle settimane seguenti, quando arrivarono i dati, analizzata. Su uno di questi siti, a fine aprile leggiamo: «per quanto riguarda la comunicazione dei brand, sono emersi due fenomeni da prendere in considerazione. Da un lato, resta viva la preoccupazione delle aziende di associare il proprio brand a contenuti ansiogeni e quindi si assiste al blocco della comunicazione nei confronti dei tanti contenuti relativi all’emergenza sanitaria, sociale ed economica in corso. Dall’altro lato, si sta verificando un fenomeno di omologazione della comunicazione pubblicitaria, con annunci molto simili fra loro che, facendo leva su valori come la casa, la famiglia o l’unità, non fanno altro che ricordarci cose che già sappiamo».
A più emozioni corrispose chiaramente più traffico, ma anche meno pubblicità e quindi meno soldi. Il grande paradosso di una informazione che andava a caccia della nostra attenzione in ogni modo per poi rivenderla passivamente e all’ingrosso agli investitori si manifestò in tutta la sua assurdità. E intanto il “danno” era fatto: nel pubblico si era diffusa, proprio grazie a quell’attenzione esagerata ai bollettini quotidiani, la sensazione di essere in una vera e propria guerra.
Se comunichi come se fossi in guerra, in fondo sei in guerra. Una guerra, però, contro un nemico invisibile e, proprio per questo, una guerra terrificante. Ma, ancor peggio, una sensazione falsa e una metafora pericolosa, che infatti generò molte critiche da parte di analisti dei media e psicologi.
Questa è la nuova puntata di Fixing News, un progetto di Blogo in collaborazione con Slow News. Esce una volta a settimana e se vuoi saperne di più puoi cliccare qui per leggere il “manifesto”. Se invece vuoi ascoltare questo articolo in formato Podcast, lo trovi subito qui sotto, (ed anche su Spreaker, Spotify e sulle altre piattaforme). Se hai suggerimenti, idee, richieste per le prossime puntate, scrivici a fixingnews@blogo.it.